La “religione della bellezza” non ci rende più felici: al contrario, alimenta le nostre insicurezze. Ci spinge a inseguire senza sosta nuovi prodotti e trattamenti, come se accettarsi fosse ormai un’idea fuori dal tempo. Il marketing ci bombarda con messaggi sempre più persuasivi: Ti sei accorto di ignorare la realtà? La luce che credi di avere, dov’è? Anche tu stai invecchiando. Hai bisogno di aiuto per salvare il tuo corpo in declino. Perché non ammetti le tue insicurezze?
Un tempo i profeti di questo culto urlavano in modo sguaiato come Wanna Marchi, oggi invece si presentano con toni pacati e rassicuranti, invitandoci a prenderci cura di noi stessi. È un confessionale moderno, dove il “peccato” di non aver dedicato abbastanza attenzioni al proprio corpo diventa il primo passo verso la redenzione, che – guarda caso – passa sempre attraverso l’acquisto di qualche prodotto “irrinunciabile".
Ma gli adepti di questa fede si accorgono presto che il senso di inadeguatezza non svanisce. Le promesse di salvezza svaniscono con la stessa rapidità con cui si accumulano i prodotti "magici" sullo scaffale. Le creme “comuni” non bastano più: serve il marchio più esclusivo, il trattamento più innovativo. E così si continua a inseguire la perfezione, senza mai raggiungerla. Perché è proprio questo il cuore del meccanismo: se qualcuno si sentisse davvero appagato, l’intero mercato si fermerebbe.
Il problema di fondo è riconoscere se stessi, andando oltre il semplice accettare la propria immagine riflessa nello specchio. La filosofia antica, più che sull’estetica, fondava la sua riflessione sull’etica, mettendo al centro i valori morali. Diogene racconta che Socrate faceva guardare gli ubriachi allo specchio per mostrare loro il volto deformato dal vino. Lo specchio, infatti, non riflette solo l’aspetto fisico, ma anche l’animo, rivelando la nostra moralità e spingendoci a superare i vizi, mostrandoci chi siamo e chi dovremmo essere. Per Platone, il vero specchio è l’amico o l’amante, che ci riflette attraverso il suo sguardo e la sua anima. Il filosofo greco vede in noi degli specchi viventi: sono gli occhi di chi ci sta accanto a mostrarci chi siamo davvero, la qualità delle nostre relazioni e la capacità di aprirci agli altri. Questo aiuta a comprendere meglio il mito di Narciso, che si innamora del proprio riflesso nell’acqua perché non capisce che sta guardando se stesso. Il narcisismo, nel senso comune di amore per se stessi, non è il vero significato del mito. Narciso, infatti, non ama se stesso, ma un altro nel suo riflesso. La tragedia sta nel fatto che, innamorandosi di un “altro”, Narciso finisce per perdersi. Non è una questione di ego, ma di un amore che non riesce mai a trovare l’altro sul serio, a creare un rapporto vero.
Secondo il teologo Hans Urs von Balthasar, l’essere umano si realizza pienamente solo attraverso una relazione autentica con gli altri: «C’è un io concreto solo a partire da un tu, verso un tu e un noi, altrimenti l'io diventa inferno per se stesso. Il passaggio dalla chiusura in se stessi all’apertura verso l’altro è ciò che permette di diventare persona, su un fondamento d’amore, insieme al quale nasce la speranza»[1].
Oggi, invece, prevale uno sguardo costantemente rivolto verso se stessi, che potrebbe essere definito "autoerotico". Il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han parla della “levigatezza” che, attraverso vari filtri, cerchiamo nei nostri selfie, ma non solo. Per Han, non è solo una questione estetica: rappresenta un imperativo culturale, simbolo di una società della positività, in cui l’obbligo di mantenere un atteggiamento ottimistico può nascondere sofferenza o impedire una visione critica della realtà. La superficie liscia, infatti, non provoca turbamenti, non genera ansie, non ha conseguenze: si limita a ottenere un like. L’oggetto levigato neutralizza ogni negatività, alimentando una falsa autostima. Da qui nasce una sorta di “religione della levigatezza”, in cui la perfezione diventa un anestetico che cancella ogni consapevolezza.
Nel 2019, per proteggere la salute mentale degli utenti, Mark Zuckerberg ha deciso di bandire i contenuti che promuovevano la chirurgia estetica, ma continuiamo comunque a usare quelli permessi. Questo passatempo, per la Generazione Selfie, è decisamente pericoloso. In un’intervista al Corriere della Sera, Marco Iera, chirurgo plastico di Milano, afferma: «Fino a qualche tempo fa, le pazienti chiedevano di assomigliare alle celebrità del momento. Oggi, invece, usano come riferimento le proprie foto modificate con i filtri. Molte desiderano migliorare il volto: occhi più tirati, la punta del naso più piccola e sollevata, le labbra più definite. Gli uomini, invece, chiedono per lo più la lipostruttura dell’addome, la blefaroplastica e la tossina botulinica per eliminare le rughe della fronte» [2].
La chirurgia estetica, a meno che non sia consigliata da psicologi o medici competenti, appare come una forma di magia, una falsa “chirurgia dell’interiorità”. Purtroppo, la cronaca recente ci racconta di persone che, non riuscendo ad accettarsi per quello che sono, scelgono i loro chirurghi estetici tramite Instagram. È fondamentale che genitori, educatori e docenti comprendano che il vero problema non è rimodellare i volti o i corpi, ma trasformare le anime. L’anima si forma accettando la presenza di difetti, il dolore, i passaggi negativi della vita, integrando fragilità e vulnerabilità. Questa sorta di “chirurgia dell’interiorità” potrebbe essere l’erede moderna di antichi rituali e pratiche magiche, come il mascheramento e la pittura facciale, un tempo usati per venerare gli dèi o assumere le loro sembianze. Quando poi la scelta del chirurgo avviene dopo aver visto alcune stories sui social, entriamo tristemente nel campo della “tecno-chirurgo-magia”. Solo un chirurgo serio terrà conto anche della situazione esistenziale della persona.
Un corpo levigato, anche solo attraverso filtri digitali, rischia di diventare "autoerotico", incapace di aprirsi alla bellezza dell’altro. La bellezza naturale si contrappone a quella digitale. Nel regno digitale le nostre insicurezze vengono completamente rimosse, creando una superficie perfettamente liscia, priva di imperfezioni. Non accettando i nostri difetti, rischiamo di non tollerare nemmeno quelli degli altri. Han sostiene che «la retina digitale trasforma il mondo in uno schermo di immagini e di controllo. In questo spazio visivo autoerotico, in questa interiorità digitale, non è possibile alcuno stupore. Gli uomini trovano piacere solo in se stessi»[3], senza mai aprirsi veramente agli altri.
Ritroveremo il vero senso del bello solo quando smetteremo di ritoccare la nostra immagine e di fissarci su noi stessi, cercando la bellezza oltre il nostro riflesso.
Giuseppe Pani
1. H. U. von Balthasar, Sperare per tutti. Con l'aggiunta di "Breve discorso sull'Inferno", Jaca Book, Milano 2017, 59.
2. A. F. De Cesco, Chirurgia estetica a misura di social. Voglio un filtro anche nella vita, 11 settembre 2021, htpps://www.corriere.it
3. B-C. Han, La salvezza del bello, Nottetempo, Milano 2019, 28, ed. Kindle.