Viviamo nella sensor society (società dei sensori). Qual è l’impatto antropologico e filosofico dei sensori nelle nostre vite? La sensorizzazione della realtà produce due effetti: la produzione di senso, cioè la rielaborazione di chiavi di lettura che utilizziamo per generare conoscenza nel Creato, e la produzione di ambiente, di cultura: la creazione della nostra realtà dopo l’introduzione e l’assunzione di tecnologie di sensing. Un sensore è un dispositivo che capta, traduce e converte un input in un segnale elettrico che diviene un output misurato e “leggibile” da uno strumento o da un osservatore. Esso, quindi, non fa altro che intercettare e misurare un ventaglio largo di fenomeni e quantità fisico-chimiche, o di altro tipo, presenti sulla terra: batteri, sostanze chimiche o gassose, tracce o entità (chimiche o biologiche) con proteine, intensità della luce, posizione, movimento, suono e situazioni correlate.
Ad esempio, un microfono è un sensore: converte l’energia dell’onda acustica in un segnale elettrico che ha la possibilità di essere amplificato, trasmesso, registrato e diffuso. Oggi i device digitali, le case, le automobili, gli uffici, le strade e tanto altro pullulano di sensori che, banalmente e superficialmente, consideriamo strumenti di misurazione, di archiviazione e di registrazione del mondo. Essi, invece, sono un rivoluzionario strumento della ricerca scientifica: ci permettono di vedere fenomeni, processi ed eventi inconoscibili con qualsiasi altra modalità, ma sono anche strumenti di costruzione, creazione del mondo. Si passa, infatti, come afferma Cosimo Accoto, dal “sentire il dato del mondo” al “trasformare il dato in mondo” [1].
Talvolta le tecnologie di sensorizzazione sono abbinate a tecnologie di attuazione: gli attuatori sono dispositivi che convertono i dati dei sensori in comandi di azione e d’intervento nell’ambiente. Sensori e attuatori sono spesso accoppiati e vengono chiamati trasduttori. Pensiamo a un trasduttore (rivelatore) di gas domestico che ha la capacità sensoriale di misurare nell’aria la presenza di gas in eccesso e un meccanismo di attuazione con un cui accende un impianto di condizionamento atmosferico per intervenire immediatamente in caso di pericolo. Attraverso una serie di dati, software e algoritmi, il duo sensore-attuatore crea una struttura permanente, una sorta di ontologia di contatto costante con l’ambiente, prendendo – in tempo reale e continuo – decisioni automatiche e autonome senza necessità di un nostro intervento. Dal punto di vista speculativo e filosofico, tutti questi fattori ridefiniscono il nostro concetto di presenza, sensazione, percezione e attenzione [2].
Se in un passato recente siamo stati attenti a tutta una serie di aspetti della nostra vita quotidiana, ora lo siamo di meno. Le nostre automobili hanno ormai tutte la chiusura automatica e nessuno di noi verifica più, una volta parcheggiate, che siano davvero chiuse. Se qualcuno attua ancora la verifica, lo fa in ogni caso dopo la chiusura automatica: non si tratta di un particolare insignificante. In futuro saremmo meno presenti a noi stessi, meno concentrati? La società dei sensori, dunque, non solleva soltanto importanti questioni etiche e sociali legate alla privacy, alla sicurezza dei dati e al potenziale utilizzo di queste informazioni per scopi manipolativi o discriminatori. Mark B. N. Hansen sostiene, infatti, che gli «odierni microsensori computazionali inaugurano l’operazione di un nuovo livello dell’essere presenti – cioè il presente operazionale della sensibilità – che insieme supplementa e supera il ruolo centrale e privilegiato, storicamente giocato per lungo tempo dalla coscienza come agente dell’essere presenti» [3]. In sostanza, ciò che prima si sviluppava in uno spazio temporale attraverso la fisiologia, la neurologia del cervello, l’esperienza ora si attua attraverso un processo tecnologico proiettato verso il futuro: il tempo presente dei sensi non è il medesimo del tempo presente dei sensori.
Le nuove tecnologie permettono di catturare nuovi dati sul mondo prima ancora di una nostra percezione conscia. Esse non soltanto creano, mediano nuove forme di sensibilità, ma le presentano anche in modo anticipato alla nostra coscienza attraverso un processo che Hansen definisce Feed-forward: «Poiché la coscienza tradizionale percettiva è semplicemente lasciata fuori dal loop quando le tecnologie sentono e analizzano il presente operazionale della sensibilità a livelli temporali da cui l’attività cosciente è esclusa, questo presente operazionale può essere reso disponibile alla coscienza solo in un tempo futuro anteriore. Venendo presentato alla coscienza “dopo il fatto”, rispetto all’operazionalità del presente, questo presente umano non può che arrivare alla coscienza più tardi» [4]. Più semplicemente viviamo in una sorta di società dell’anticipazione creata su dati, tecnologie di sensing e algoritmi. Fino a oggi abbiamo conosciuto una sorta di prima anticipazione (l’attesa, ad esempio, di qualcosa di imminente che potrebbe succederci), un’anticipazione secondaria, basata sul nostro vissuto, sulle nostre esperienze passate. Ora, invece, siamo nell’era dell’anticipazione terziaria [5]: dati e algoritmi, pur arrivandoci in tempo reale, anticipano in qualche modo la nostra esperienza. La comprensione, il discernimento in questa fase definibile come post-esperienziale, di mero vissuto calcolante e non pensante è complessa: il pericolo è quello di porre sullo stesso piano “coscienza umana” e “coscienza delle nuove tecnologie”.
Si pone una domanda cruciale: la freddezza dei sensori, dei calcoli è in grado di cogliere la totalità o almeno l’essenziale della realtà? La ricerca contemporanea afferma con Martin Heidegger che esiste un pensiero oltre il calcolo: il pensiero meditante, nel quale il pensare (Denken), a cui non la scienza non può arrivare con il suo approccio metodologico e di conoscenza, ha a che vedere con il ringraziare (Danken) [6]. Si entra in un oltre, in un territorio non circoscritto, indefinito e incerto a cui non ci si può sottrarre perché significherebbe rinunciare a pensare. Nell’analisi di Heidegger, la mano rappresenta il nostro esserci. Il Dasein (che indica ontologicamente l’essere umano) si collega all’ambiente mediante la mano. La mano corrisponde alla mano dell’essere, prima che alla mano dell’uomo tecnologico: è il simbolo di tutta una metafisica del cogliere, dell’afferrare un concetto, del comprendere, del scegliere. Un pensiero basato sulla razionalità calcolante si basa, invece, sul dito che conta, ma la vita non è un "conto": è un racconto. Il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han evidenzia che «la mano di Heidegger difende con decisione l’ordine terreno da quello digitale. Il termine digitale viene da digitus, dito in latino. Noi contiamo e calcoliamo con le dita, che sono numeriche, cioè digitali. Heidegger distingue esplicitamente la mano dalle dita. La macchina da scrivere per la quale sono necessarie solo le dita “sottrae all’uomo la dignità essenziale della mano”. Essa distrugge la parola degradandola a “veicolo di trasporto”, a “informazione”. L’uomo non è più Dasein, ma Inforg. Il ticchettio dei tasti va e viene non più tramite la mano che scrive e propriamente agisce. Solo la grafia si avvicina all’essenza della parola. Secondo Heidegger, la macchina da scrivere è una nube priva di segni, quindi digitale, un cloud che cela l’essenza stessa della parola. La mano è, invece, un “segno” in quanto indica ciò che si rivolge al pensiero. Solo la mano capta il dono del pensiero. La macchina da scrivere è agli occhi di Heidegger un’antesignana del computer: fa della parola solo un’informazione» [7].
Al di là del pensiero di Han, oggi è necessario confrontarsi con la filosofia digitale, capace di porsi interrogativi di rilevanza metafisica. Esiste un'informazione massmediale, ma anche una comunicazione digitale micro-targettizzata. Il fisico statunitense John Wheeler ha scritto: «Non è irragionevole supporre che l’informazione sia al cuore della fisica proprio come al cuore di un computer. It from bit, ovvero, ogni ente, ogni particella, ogni campo di forza, lo stesso continuum spazio-temporale, deriva la sua funzione, il suo significato, la sua esistenza interamente (anche se a volte indirettamente) dal porre domande sì/no, scelte binarie, bit e dal registrare le risposte dell’apparato sperimentale. It from bit simboleggia l’idea che ogni componente del mondo fisico ha al fondo – spesso, molto al fondo – una fonte immateriale e una spiegazione immateriale» [8]. Per molti pensatori il bit, l’unità elementare dell’informazione, è il costituente ultimo della realtà, ancora più importante della materia e dell’energia.
Si tratta, quindi, di entrare nel campo dell’ontologia dell’informazione e di considerare la computazione come Legge di un tutto. In un’intervista, Edward Fredkin ha affermato: «Ci sono tre grandi domande filosofiche: cos’è la vita? cos’è la coscienza, il pensiero, la memoria e quant’altro? come funziona l’universo? […] Il punto di vista informazionale le copre tutt’e tre» [9].
È possibile un dialogo tra questo pensiero e la teologia? Occorre individuare ciò che unisce rispetto a ciò che divide (concezioni gnostiche e panteistiche). Ad esempio, la filosofia digitale ha reintrodotto il concetto di metafisica (decisamente trascurato) all’interno della filosofia contemporanea. Si parla certo di una realtà informazionale all’inizio di tutto (in principio era l’informazione), e non spirituale [10], ma indirizza le nostre domande di senso oltre la nostra visuale e il caos.
Il matematico e informatico Gregory Chaitin sostiene provocatoriamente che tutto è algoritmo e Dio è un programmatore. A tal proposito, ci piace un’intuizione di Andrea Vaccaro in un articolo sul dialogo tra teologia e metafisica digitale: «L’essere umano costruisce computer per risolvere problemi; se l’universo è il Computer Cosmico creato da Dio, probabilmente anch’Egli aveva un problema da risolvere. Tra i vari tipi di problemi […] esiste pure quello dell’amore» [11].
Giuseppe Pani
[1] Cfr. C. Accoto, Il mondo dato. Cinque brevi lezioni di filosofia digitale, Egea, Milano 2017, 37-38.
[2] Cfr. ivi, 37.
[3] M. B. Hansen, Feed-Forward: On the Future of Twenty-First-Century Media, The Chicago University press, Chicago 2015, 192.
[4] C. Accoto, op. cit., 86.
[5] Cfr. Y. Hui, On the Existence of Digital Objects, University of Minnesota Press, Minneapolis 2016.
[6] Cfr. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, SugarCo, Milano 1971.
[7] Cfr. B-C. Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, Torino 2023, 65, ed. Kindle.
[8] J. Wheeler, «Information, Physics, Quantum: The Search for Links», in W. Zurek (ed.), Complexity, Entropy, and the Physics of Information, Addison-Wesley, Redwood City (CA) 1990, 5.
[9] R. Wright, Three Scientists and Their Gods, Times Books, New York 1988.
[10] I filosofi digitali «sostengono di aver individuato una terza dimensione ontologica, che si colloca nel mezzo del tradizionale dualismo tra Spirito e Materia», G. O. Longo, L’informazione principio primo? Lineamenti di filosofia digitale, in L. Taddio – G. Giacomini (a cura di), Filosofia del digitale, Mimesis, Milano-Udine 2020, 36.
[11] A. Vaccaro, Teologia e metafisica digitale, in «Rassegna di Teologia», 55 (2014), 305.