Sin dai primi giorni di giugno, alcuni amici mi invitano a condividere delle uscite in barca. Prima ancora di salpare, fissando lo sguardo verso la prua, mi sento già in mare. Mollati gli ormeggi, in caso di forte vento, l’uscita dal porto è un battesimo spesso duro. Quando, invece, il mare è calmo, la barca, accompagnata dai gabbiani (forse la scambiano per un peschereccio), inizia a navigare serenamente. Il vento delicato porta messaggi, le onde e gli spruzzi spazzano le certezze, ma purificano anche i pensieri: il mio cuore è pronto ad accogliere nuove idee e sfide.
Per motivi di lavoro e di studio, ho “navigato in rete” in autunno, inverno e primavera. Nel 1992, la bibliotecaria Jean Armor Polly è stata la prima persona a usare l’espressione surf the internet. Intenta a scrivere un articolo sul piacere, sul tipo di abilità, ma anche sulle difficoltà del sapersi muovere nel mondo online, vedendo raffigurato sul tappetino del suo mouse un surfista con scritto information surfer, decise di intitolare il suo articolo “surf the internet”. Una geniale metafora diventata ormai d’uso comune.
Mentre navigo finalmente nel mare, osservo la costa quasi disabitata e selvaggia, l’alternarsi di baie e insenature, il mare azzurro, a tratti verde. Di fronte a un simile spettacolo, mi estraneo: sto in silenzio aspettando che il mare mi parli. I miei amici rispettano questo momento, sono abituati a vedermi in semi-estasi; anzi, ammirano il “coraggio” di questa solitudine che, a dispetto delle mie radici montane, ha il sapore del mare. «I tempi della mia giovinezza – ha scritto Joseph Conrad –, i tempi in cui si formano le abitudini e il carattere, hanno avuto parecchia familiarità con i lunghi silenzi. Oltre la linea d’orizzonte marino il mondo non esisteva per me, sicuramente come non esisteva per i mistici che si rifugiavano sulle cime delle montagne. Parlo qui di quella vita intima, che contiene il meglio e il peggio di quanto può capitarci nelle profondità temperamentali del nostro essere, dove un uomo deve davvero vivere da solo» [1].
Vedo il faro nella scogliera e penso a quanto sarebbe bello abitarci: vivere isolato, lontano da questo mondo dilaniato e diviso dalle guerre, violento e intollerante. Ma il mio posto è sulla barca per “remare” insieme agli altri.
Navigare mi riporta indietro nel tempo, agli anni del Liceo, quando, con passione, leggevo e studiavo i classici della letteratura greca. Penso a Ulisse e al suo desiderio di ritornare a casa, ben descritto da Atena quando si rivolge così a Zeus: «Odisseo nel desiderio di scorgere sia pur solo il fumo che balza dalla sua terra, vuole morire» [2]. Ulisse ha da sempre rappresentato colui che supera i pericoli della vita, i viaggi difficili ma con una meta certa.
Mentre scruto l’orizzonte, il mito odissaico del canto delle sirene mi interroga sulle mie scelte giuste o sbagliate. Seirênes in greco significa "incantatrici", "seduttrici". Le sirene erano descritte come esseri ibridi (una sorta di donne uccello) assetati di sangue umano. Nell'Odissea, Omero non descrivendone l'aspetto fisico quasi "abbellisce" queste figure sanguinarie, ma non ne dimentica la loro vera natura quando le immagina tra mucchi di ossa e cadaveri in putrefazione. «Le sirene sono entità di morte. E un demone spiana loro la strada. Chi non vuole mancare di raggiungere la patria, deve avere in sé una scienza, che è dono di Dio, e che gli consenta di distinguere tra luce e tenebre, una sorta di fiuto per la morte e la vita. Le affascinanti parole delle sirene sono un “canto che strega”, e l’effetto che ne consegue è il “disfacimento”» [3]. Le sirene promettono qualcosa di sovraumano, si pongono tra gli dèi e gli uomini, come propone oggi un certo transumanesimo senza etica: «Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera, se prima non sente, suoni di miele, dal labbro nostro la voce; poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose» [4].
Secondo la leggenda, gli Argonauti passarono vicino alle sirene, ma Orfeo cantò così bene che i marinai non le ascoltarono, non cedettero alle loro lusinghe. Anche Ulisse navigò in quelle acque pericolose, ma, preavvertito da Circe, ordinò ai suoi uomini di tapparsi le orecchie con la cera; lui stesso si fece legare a un albero della nave, vietando ai compagni di slegarlo qualunque preghiera avesse loro rivolto. Ulisse avverte i compagni dell’utilità della conoscenza: essere consapevoli dei pericoli non serve a evitarli, ma ad affrontarli nel modo migliore attraverso la ragione. Come l’eroe greco, siamo in bilico tra due poli apparentemente opposti: la realtà che conosciamo, quella che tocchiamo con mano ogni giorno, e l’ignoto, la novità, l’intelligenza artificiale. Papa Francesco scrive: «Lo stesso cristianesimo mantenendosi fedele alla sua identità e al tesoro di verità che ha ricevuto da Gesù Cristo, sempre si ripensa e si riesprime nel dialogo con le nuove situazioni storiche, lasciando sbocciare così la sua perenne novità» [5].
Prima del difficile confronto, Ulisse si rivolge così ai suoi compagni: «Possiamo o morire sapendolo, o scampare, evitando la morte e le Chere» [6]. Nell’espressione «possiamo morire sapendolo» è racchiuso il significato più autentico di questo mito. Ulisse rappresenta l’uomo che sfida la vita, fino ad accostarsi minacciosamente al pericolo della morte, ma che poi riesce a salvarsi. Malgrado le sue orecchie ascoltino spalancate, non esegue gli ordini delle sirene, non si fa incantare. Seguendo il consiglio divino, supera una prova difficilissima [7].
Mentre i miei amici marinai sono impegnati nelle manovre, guardo l’albero maestro che incombe su di noi. Ripenso ai primi cristiani, ai Padri della Chiesa, che in esso hanno visto la croce di Cristo, del navigante immortale. Seguo il consiglio di Sant’Ambrogio: «Felice viaggio hanno coloro che nelle loro navi guardano alla croce come a un albero maestro da seguire. Al sicuro essi sono e certi della salvezza, nel legno del Signore, e non lasciano vagare la loro nave sulle onde [8]. L’essere legati all’albero maestro, alla croce, è un incatenarsi per la libertà, ma non quella priva di limiti sponsorizzata dall’odierno contesto culturale.
Concluso il viaggio in mare, e ormeggiata la barca nel molo del porto, ammiro poco lontano una spiaggia meravigliosa. Il limite è come una spiaggia che costeggia il mare dell’eternità: tende sempre all’infinito. Tra spiaggia, acqua e orizzonte abbiamo tre possibilità: specchiarci nel mare rischiando di fare la fine di Narciso, ucciso dal veleno dei suoi sguardi; entrare in acqua e bagnarci, ricordandoci però del detto: se un contemplativo si getta in acqua, non cercherà di nuotare – cercherà dapprima di comprendere l’acqua – e affogherà; oppure nuotare, unica soluzione per mandare in frantumi lo specchio del mare: «Nuotare ci libera dalla nostra immagine. Ogni bracciata ci libera da noi stessi. Lo specchio del mare [...] non può che riflettere il cielo in senso proprio: un infinito che è a sua “misura” o piuttosto a dismisura. L’individuo, punto minuscolo nell’immensità, nullità tra il niente e il tutto, non vi si riflette, ma vi si perde» [9].
Occorre navigare, ma anche “nuotare” nel mare della rete.
Giuseppe Pani
1] Citato in C. A. Borden, La ricerca del mare, Mursia, Milano 1999, 63.
[2] Odissea I, 57s.
[3] H. Rahner, Le sirene di Ulisse. Letture cristiane di un mito greco, EDB, Bologna 2015, 9.
[4] Odissea XII, 186-190.
[5] Francesco, Lettera enciclica Laudato si’. Sulla cura della casa comune, 24 maggio 2015, n. 121.
[6] Odissea XII, 156s.
[7] Cfr. H. Rahner, op. cit., 9-10.
[8] Ambrogio, Explanatio Psalmorum 43, 17.
[9] C. Guérard, Piccola filosofia del mare. Da Talete a Nietzsche, Guanda, Parma 2010, 53.